Rapporto 2017: trasformazione sociale e bisogni di welfare

Se il dibattito sulla riforma del welfare negli ultimi trent’anni è stato centrato principalmente sullo squilibrio finanziario delle grandi istituzioni pubbliche, pensioni e sanità, oggi, in uno scenario di prolungata instabilità economica, la questione emergente è la crescente fragilità sociale del paese.

Certamente pesa sulla fragilità sociale la riduzione dei livelli di copertura del welfare pubblico. Negli ultimi mesi numerosi studi e autorevoli interventi hanno fornito contributi su questo tema. Il presidente dell’INPS Boeri ha evidenziato il rischio sociale derivante dalla maturazione per le giovani generazioni di redditi pensionistici molto inferiori alle attese e non adeguatamente integrati dalla previdenza complementare.

Per quanto riguarda la sanità si allarga il fenomeno della rinuncia alla cura: secondo una ricerca del CENSIS sono 11 milioni le persone che nel corso dell’anno hanno rinunciato o rinviato il ricorso a prestazioni sanitarie. Osservasalute, l’osservatorio sulla salute nelle regioni, ha denunciato una riduzione dei livelli di prevenzione e segnalato che nel 2015 per la prima volta le aspettative di vita degli italiani sono calate, pur restando tra le più alte nel mondo: 80,1 anni per gli uomini e 84,7 per le donne.

Ma la fragilità sociale è destinata ad aumentare anche e soprattutto per la frammentazione della società, determinata da profonde trasformazioni demografiche e socioculturali. Il punto chiave è l’indebolimento della famiglia come prima e fondamentale rete sociale di protezione. Oggi quasi un terzo delle famiglie italiane sono costituite da un solo componente, e una quota simile, vicina al 30%, è costituita dagli anziani che vivono soli. La coesione tra le generazioni è indebolita, se non compromessa, già nelle strutture di base della società.

L’evoluzione dei modelli famigliari ha subìto una forte accelerazione. È in aumento la mobilità delle scelte di vita personali: il tasso di separazione ha superato la quota di un terzo ed è raddoppiato rispetto agli anni ’90. Nel 2016 il 28% dei figli sono nati fuori del matrimonio.

Un recente studio dell’ISTAT ha permesso di misurare le nuove forme famigliari: si tratta di 8 milioni di famiglie diverse dalla tradizionale condizione matrimoniale, al cui interno vivono il 22% degli italiani. È importante ricordare che il ritardo normativo con cui il nostro paese tutela le nuove forme famigliari è anch’esso un problema di welfare. Anche sotto questo punto di vista il 2016 è stato un anno di svolta, con l’approvazione della legge sulle unioni civili e sulle coppie di fatto.

 

La propensione al risparmio, che in realtà misura la capacità di risparmio delle famiglie, dopo il ciclo recessivo 2008 – 2012 è in ripresa ma resta stabilmente inferiore al 10%, circa la metà del livello degli anni ’90. Per gran parte delle famiglie è compromessa la capacità di costruire o ricostruire, con il risparmio, una condizione patrimoniale di sicurezza a lungo termine. Tra gli indicatori di fragilità sociale del paese sono particolarmente importanti i tassi di dipendenza, che misurano il rapporto tra segmenti non attivi e segmenti attivi della popolazione.

I trend demografici sono alla base delle trasformazioni sociali di lungo termine. In particolar modo l’invecchiamento ha determinato un rapido aumento dell’indice strutturale di dipendenza, costituito dal rapporto tra la popolazione in età non attiva e la popolazione in età attiva (15 – 64 anni). Esso era ancora inferiore al 50% nei primi anni 2000, mentre nel 2016 ha superato il 55%.

Ma il cambiamento demografico è solamente una delle componenti che incidono sui livelli di dipendenza sociale, ovvero di esclusione dal lavoro di segmenti della popolazione anche in età attiva. Pesano fattori che hanno a che fare con le difficoltà del mercato del lavoro, con l’inadeguatezza dei servizi sociali alle famiglie e alle imprese, ma anche con limitazioni di carattere culturale, i quali determinano le nostre aree di più grave debolezza sociale:

le difficoltà e il ritardo nell’accesso dei giovani al lavoro;

l’esclusione delle donne dal lavoro e dalla mobilità sociale.

L’occupazione giovanile nel 2016 è migliorata di un punto sull’anno precedente e di quasi cinque punti in due anni, essendo passata dal 42,7% del 2014 al 37,5% del 2016 (dati al terzo trimestre). Hanno certamente inciso positivamente le nuove norme che regolano l’ingresso nel mercato del lavoro e gli incentivi alle assunzioni, accanto al lieve miglioramento del quadro economico generale. Ma il gap verso i paesi europei resta pesantissimo.

L’Eurostat segnala che la disoccupazione giovanile italiana è doppia rispetto alla media europea. Questi dati mettono in particolare rilievo la differenza rispetto al dinamismo del mercato del lavoro tedesco, che fu profondamente riformato nei primi anni 2000 e che oggi vanta un tasso di disoccupazione giovanile del 7%. L’esclusione delle donne dal lavoro resta un fenomeno stabile, senza alcun segnale di miglioramento.

Nel nostro paese sono occupati due uomini su tre in età lavorativa (15 – 64 anni) e meno di una donna su due. Negli ultimi tre anni, dall’inizio del 2014 alla fine del 2016, la differenza tra tasso di occupazione maschile e femminile è rimasta stabile ed anzi ha subito un lieve peggioramento, passando da 17,8 punti a 18,4. Questa è la misura della esclusione delle donne dal lavoro: circa il 18% delle donne in età lavorativa, un numero prossimo a 4 milioni di persone.

A conclusione di questo sintetico esame del rapporto tra fragilità sociale e livelli di occupazione ci pare utile considerare la struttura generale del nostro paese per condizione professionale. Su una popolazione di 60,7 milioni di persone gli occupati sono 22,5 milioni (il 37% del totale), per tre quarti dipendenti e per un quarto imprenditori e lavoratori autonomi. Queste cifre danno sinteticamente un’idea di quanto le strozzature del mercato del lavoro pesino sulla sostenibilità economica e sociale del paese.

La forza lavoro è costituita da 25,6 milioni di persone, di cui 3 milioni disoccupati. I pensionati sono 15,7 milioni, il 26% della popolazione totale. Abbiamo quindi un pensionato ogni 1,6 lavoratori attivi (considerando anche i disoccupati) e un pensionato ogni 1,4 lavoratori occupati. Come conseguenza di numerosi interventi normativi sulle pensioni, e in modo particolare della riforma del 2011, il numero dei pensionati residenti è diminuito in tre anni di 400.000 unità, passando da 16,1 milioni nel 2012 a 15,7 milioni nel 2015.

Dal punto di vista delle casse previdenziali le pensioni sono un costo, e l’equilibrio tra pensionati e lavoratori attivi è fondamentale per la sostenibilità delle istituzioni del welfare. Ma dal punto di vista delle famiglie le pensioni sono un reddito e, come abbiamo osservato all’inizio di questo paragrafo, l’adeguatezza dei redditi pensionistici è determinante per la coesione sociale. In un paese con un pensionato ogni quattro abitanti, nel quale le pensioni danno un contributo importante alla capacità di spesa delle famiglie, i redditi da pensione sono decisivi anche per la sostenibilità delle imprese.

Nelle due recessioni recenti, quella del 2008-2009 e quella del 2011-2012, il welfare ha funzionato da stabilizzatore, impedendo fenomeni massivi di impoverimento ed evitando un crollo del livello dei consumi. C’è da chiedersi quali sarebbero le conseguenze di crisi analoghe in un futuro caratterizzato da redditi pensionistici molto più bassi e da livelli inferiori di copertura gratuita di servizi essenziali come la sanità e l’istruzione. Il welfare è fondamentale per la tenuta del paese, ma le sue prestazioni sono tuttora quasi esclusivamente a carico dei sistemi pubblici. È quindi urgente la necessità di accrescere il contributo integrativo privato, anche con le iniziative di welfare aziendale.

Tabella 18

La tabella 18 mostra un mercato del lavoro dinamico, nonostante nell’ultimo anno i trend molto positivi del 2015, sostenuti da incentivi alle assunzioni, abbiano subito un rallentamento. Il sistema produttivo nel 2016 ha effettuato 5,8 milioni di assunzioni con un saldo positivo, rispetto alle cessazioni, di 340.000 unità.

Le assunzioni a tempo indeterminato sono state 1,3 milioni, le trasformazioni da contratti a termine a contratti a tempo indeterminato 460.000, e anche in questo caso, rispetto alle cessazioni, il saldo è risultato positivo benché in minima misura: 80.000 unità. Con la riforma del mercato del lavoro il paese ha avviato un cambiamento di paradigma che comporta un percorso di attuazione molto lungo, poiché prevede l’attivazione di nuovi istituti di sostegno alla mobilità e la progressiva sostituzione dei precedenti istituti, e richiede l’iniziativa di tutti i soggetti interessati: le imprese, i lavoratori, le rappresentanze sociali, le istituzioni pubbliche.

Le politiche di sostegno alla mobilità del lavoro si articolano su diversi livelli: facilitare l’accesso dei giovani, promuovere la stabilizzazione dei rapporti di lavoro e l’adeguamento professionale continuo, sostenere il reddito dei disoccupati e la qualificazione verso nuove posizioni, nel caso di perdita del lavoro. In questo nuovo contesto il welfare aziendale gioca un ruolo importante a sostegno della mobilità sociale e della mobilità del lavoro. Infatti comprende iniziative a favore delle famiglie per favorire l’istruzione dei figli e la mobilità sociale delle nuove generazioni, iniziative per la formazione dei lavoratori, soluzioni di flessibilità nell’organizzazione del lavoro, servizi per la maternità e per il sostegno delle pari opportunità, supporti per i soggetti deboli.

L’invecchiamento delle popolazioni aziendali e le difficoltà di accesso dei giovani al lavoro, hanno posto all’ordine del giorno la necessità di definire politiche attive di sostegno al ricambio generazionale. Gli accordi di solidarietà generazionale attuati in alcune aziende, basati sulla riduzione incentivata degli orari di lavoro per gli anziani e l’impegno delle imprese all’assunzione di giovani lavoratori, sono iniziative di welfare aziendale che costituiscono modelli avanzati per una possibile generalizzazione contrattuale e legislativa.

In conclusione, il welfare aziendale si confronta con una duplice sfida: accelerare l’integrazione delle prestazioni del welfare pubblico e offrire soluzione ai nuovi bisogni. Resta infatti aperta la necessità di dare maggiore efficienza agli istituti del welfare pubblico: pensioni, sanità, servizi. Il welfare aziendale, integrandone le prestazioni, offre un contributo importante in questa direzione e può permettere un alleggerimento della spesa pubblica.

D’altro canto l’attualità del welfare aziendale è imposta dalle trasformazioni sociali che abbiamo esaminato:

• il cambiamento della famiglia, indebolita nella sua funzione di assicurare la coesione sociale tra le generazioni;

• il crescente peso delle dipendenze sociali e delle esclusioni;

• il cambiamento del mercato del lavoro, che comporta una domanda di sostegno alla mobilità e alla qualificazione delle generazioni attuali e future.

Queste trasformazioni generano bisogni molteplici, distribuiti in modo difforme nel territorio e differenziati tra gli stessi lavoratori secondo le condizioni familiari e le fasi di vita di ognuno. Ciò rende impossibile pensare a soluzioni universali. I valori guida del welfare aziendale sono la flessibilità dei piani aziendali e la possibilità di personalizzare le soluzioni per ogni lavoratore.

Estratto dal Rapporto 2017 di Welfare Index PMI