Fonti istitutive e modalità di attuazione del welfare aziendale | Estratto dal Rapporto 2020

Lo sviluppo del welfare aziendale è stato sostenuto in questi anni da una crescente articolazione delle sue fonti istitutive. Alla contrattazione nazionale, che ha storicamente creato gli istituti del welfare occupazionale collettivo, numerose aziende hanno affiancato accordi di secondo livello: contratti aziendali, interaziendali, territoriali. Oggi il welfare aziendale è un tema di negoziazione a entrambi i livelli, quello collettivo nazionale e quello aziendale e locale. Inoltre, accanto alle fonti negoziali, una spinta rilevante viene dall’iniziativa autonoma delle imprese. Se i contratti collettivi (CCNL) stanno progressivamente ampliando le garanzie di welfare, la diffusione effettiva dei servizi da questi istituiti resta tuttavia parziale.

Secondo i dati Covip, l’autorità di vigilanza della previdenza complementare, i fondi pensione chiusi hanno raggiunto a giugno 2020 una penetrazione del 26% sul bacino di potenziali aderenti. Considerando anche le altre tipologie di fondi previdenziali, collettivi e individuali, il tasso di copertura sale al 36% sul totale degli occupati.

Per quanto riguarda la sanità complementare, il tasso di copertura di casse, società di mutuo soccorso e dei fondi sanitari è circa del 35% (stime Innovation Team su dati ISTAT e Ministero della Salute). Una delle cause frenanti per questi istituti è la difficoltà di comunicazione e di coinvolgimento dei lavoratori, in un contesto di estrema frammentazione del sistema produttivo (FIGURA 21). Solo nel 31,2% delle imprese i lavoratori ricevono una comunicazione completa e sistematica sulle misure di welfare previste dai contratti nazionali. Nel 30,4% dei casi la comunicazione si limita all’informazione generica o parziale su alcuni servizi, mentre nel 38,4% è di fatto assente. Negli ultimi anni è molto cresciuta l’importanza dal welfare aziendale nella contrattazione integrativa: accordi aziendali, interaziendali e locali. Sono significativi a questo proposito i dati OCSEL (Osservatorio sulla Contrattazione di Secondo Livello) della CISL: il 36% degli accordi integrativi sottoscritti nel periodo 2017-18 hanno introdotto misure di welfare, con una crescita notevole sul biennio precedente (23%).

 

Il welfare si è affermato come la seconda materia più presente nella contrattazione di secondo livello, dopo il salario e prima di materie di grande importanza come l’orario, la gestione delle ristrutturazioni e delle crisi, i diritti sindacali e l’organizzazione del lavoro.

Com’è noto, la normativa del welfare aziendale equipara come fonti istitutive la negoziazione integrativa e i regolamenti aziendali (stabiliti autonomamente dalle imprese). La FIGURA 23 mostra la crescita complessiva di queste fonti, dal 22,8% del 2019 al 33,7% del 2020. Il contratto integrativo aziendale è alla base delle iniziative di welfare principalmente nelle imprese medio grandi (47,8%), mentre la media generale è del 7,6%. Molto simile (7,2%) è la quota degli accordi interaziendali e territoriali. Lo strumento più diffuso è il regolamento aziendale, utilizzato dal 20,6% delle imprese. I contratti integrativi e i regolamenti aziendali introducono o disciplinano servizi di welfare aziendale nel 41,9% dei casi e prevedono premi di risultato nel 48,2%.

Abbiamo definito un indice di proattività delle imprese, misurando quante hanno introdotto iniziative di welfare aggiuntive a quelle previste dai contratti collettivi nazionali, per effetto sia dei contratti integrativi e dei regolamenti aziendali sia dell’iniziativa unilaterale delle imprese stesse. Questo indice è cresciuto in misura significativa negli ultimi anni. Le aziende che attuano almeno una misura di welfare aggiuntiva a quelle previste dai CCNL erano il 58,3% nel 2017, sono cresciute al 66% nel biennio successivo e hanno raggiunto il 73,5% nel 2020.

La proattività aziendale si manifesta soprattutto in alcuni ambiti del welfare: è prevalente nelle aree della formazione, del sostegno economico ai dipendenti, della cultura e del tempo libero. Nelle aree della sanità, dell’assistenza e della previdenza complementare è invece fondamentale il ruolo degli istituti negoziali collettivi, e le iniziative aziendali assumono un carattere integrativo di arricchimento delle prestazioni. Nelle altre aree l’articolazione tra le diverse fonti istitutive è bilanciata. Il welfare aziendale si sviluppa dunque per effetto di una molteplicità di iniziative, in un quadro complesso di norme e di relazioni industriali.

Gli incentivi fiscali restano determinanti nell’incoraggiare l’iniziativa di welfare delle imprese, pur se la crescente proattività determina anche una maggiore disponibilità alla spesa. Le imprese che sostengono costi aggiuntivi rilevanti per il welfare aziendale sono il 9%, mentre per il 34,7% i costi sono sostenibili perché in buona parte compensati dai risparmi fiscali. Il numero complessivo di imprese che sostengono costi per il welfare aziendale è dunque del 43,7%, in graduale crescita. Tra le imprese molto attive questa quota raggiunge il 66,4%.

Uno degli scopi della normativa del welfare aziendale è di contribuire alla crescita dei premi di risultato, per favorire l’adozione di sistemi premianti capaci di migliorare la produttività delle imprese. La conoscenza, almeno generale, di queste norme e delle opportunità che offrono è in crescita, dal 53,8% del 2017 al 61,5% del 2020. Ma la conversione in welfare dei premi di risultato è tuttora poco diffusa: riguarda il 12,8% delle imprese (il 20,9% di quelle che ne sono a conoscenza), nella maggior parte dei casi per importi di modesta entità. Va però sottolineata l’apertura di interesse: se nel 2017 il 70,8% delle imprese a conoscenza di questo strumento dichiaravano di non avere intenzione di utilizzarlo in futuro, nel 2020 la loro quota è scesa al 42,5%.

La diffusione del welfare aziendale è stata facilitata dall’ampiezza delle prestazioni incentivate e dalla possibilità per i lavoratori di scegliere liberamente quali utilizzare. La normativa ha permesso l’adozione di sistemi di flexible benefit, supportati da piattaforme che gestiscono l’accesso alla gamma di servizi selezionati dall’azienda. La conoscenza e l’utilizzo dei flexible benefit, inizialmente limitati alle maggiori aziende, sono in crescita. L’indice di conoscenza era del 29,8% nel 2017, oggi è del 38,6%. Le imprese che ne fanno uso sono passate negli stessi anni dall’1% al 19,6% di quelle che ne sono a conoscenza, pari al 7,6% del totale delle imprese.

Leggi il Rapporto 2020 qui.

Bilanci 2020 e normativa emergenziale Covid-19

di Andrea Dili – Dottore Commercialista, esperto di Welfare Index PMI

Nelle prossime settimane società di capitali e cooperative saranno alle prese con la chiusura dei bilanci dell’esercizio 2020, con stati patrimoniali generalmente appesantiti dalle perdite provocate dall’emergenza sanitaria COVID-19. In tale contesto, l’applicazione delle ordinarie regole di redazione del bilancio potrebbe condurre alla chiusura forzata di molte imprese, a causa della materiale impossibilità di rispettare i vincoli patrimoniali dettati dal diritto societario.

Al fine di scongiurare tale rischio il legislatore ha predisposto una serie di strumenti “eccezionali”, volti a consentire alle imprese la riduzione o il rinvio degli effetti “contabili” delle perdite maturate nel corso del 2020 a causa delle restrizioni imposte dalla pandemia. In particolare, la strategia messa in campo con i decreti emergenziali si è dispiegata in una duplice direzione:

  • da un lato derogando all’applicazione di alcune norme del diritto societario;
  • dall’altro introducendo la possibilità di avvalersi di interventi atti a migliorare i saldi dei bilanci 2020.

Per quanto riguarda le deroghe gli interventi più significativi riguardano il rinvio dell’entrata in vigore della riforma della crisi d’impresa e, soprattutto, il varo di una disciplina transitoria inerente i principi di redazione del bilancio e le cause di scioglimento per riduzione o perdita del capitale sociale. In merito a quest’ultima fattispecie occorre osservare che l’articolo 6 del Decreto Liquidità (DL 23/2020) dispone che per l’esercizio in corso al 31 dicembre 2020 non trovano applicazione le norme che prevedono l’obbligo di riduzione del capitale sociale o lo scioglimento della società in caso di perdite significative (ovvero che incidono il capitale per oltre un terzo o che lo riducono al di sotto del minimo legale). In questi casi le società interessate avranno cinque anni di tempo per assorbire le perdite registrate nel 2020, utilizzando gli utili prodotti nei successivi esercizi o eventuali nuove sottoscrizioni di capitale da parte dei soci. Ai fini della relativa informativa occorrerà specificare in appositi prospetti della nota integrativa del bilancio l’origine e la movimentazione di tali perdite, fino a quando non saranno completamente riassorbite.

Il successivo articolo 7 dello stesso decreto contempla la possibilità di derogare al principio secondo cui il bilancio deve essere stilato nella prospettiva della continuazione dell’attività. Le società possono avvalersi di tale opzione soltanto se l’ultimo bilancio precedentemente approvato è stato redatto con il presupposto della continuità aziendale. In ogni caso, tuttavia, al fine di assicurare una corretta informazione nei confronti dei terzi, nella nota integrativa del bilancio dovranno essere illustrate le ragioni dell’utilizzo della deroga nonché della capacità dell’impresa di continuare a svolgere la propria attività nel prossimo futuro.

Per quanto invece attiene alle operazioni che possono incidere sui saldi del bilancio 2020 vanno evidenziate le opportunità delineate dal Decreto di Agosto (DL 104/2020), ovvero:

  • la sterilizzazione degli ammortamenti;
  • la rivalutazione dei beni d’impresa.

I commi da 7-bis a 7-quinquies dell’articolo 60 del decreto concedono, ai soggetti che non adottano i principi contabili internazionali, la facoltà di non imputare in bilancio una quota fino al 100% degli ammortamenti delle immobilizzazioni immateriali e materiali di competenza dell’esercizio 2020 (esercizio in corso al 15 agosto 2020), a condizione di iscrivere una riserva indisponibile di pari valore nel patrimonio della società. In buona sostanza, quindi, le società interessate potranno ridurre o azzerare la quota di ammortamento relativa al 2020, migliorando il risultato economico dell’anno. In merito occorre osservare come, a seconda della tipologia del bene cui l’operazione è riferita, l’ammortamento sospeso dovrà essere recuperato secondo una duplice modalità:

  • nel caso in cui la vita utile del bene possa essere ragionevolmente allungata il piano di ammortamento slitterà di un anno;
  • nel caso in cui, invece, non sia possibile aggiornare la vita utile del bene (si pensi, ad esempio, al caso di una licenza con durata limitata) occorrerà spalmare la quota sospesa sugli anni residui.

 

Anche in questo caso si dovranno indicare le ragioni dell’esercizio dell’opzione nella nota integrativa, specificandone gli effetti patrimoniali, finanziari e sul risultato economico dell’esercizio. Sul piano fiscale, invece, le imprese interessate potranno godere della deduzione delle relative quote seguendo il piano di ammortamento originario (e, quindi, deducendo nel 2020 anche le quote sospese).

L’articolo 110 dello stesso decreto, infine, consente a società di capitali e cooperative che non adottano i principi contabili internazionali di rivalutare beni d’impresa e partecipazioni iscritti nel bilancio dell’esercizio in corso al 31 dicembre 2019. Sul piano contabile la rivalutazione, che potrà essere eseguita esclusivamente nel bilancio dell’esercizio successivo (ovvero quello in corso al 31 dicembre 2020), comporta l’iscrizione di una riserva di pari valore nel patrimonio netto.

L’impresa potrà eseguire tale rivalutazione distintamente su ciascun bene, ad un valore massimo coincidente con quello di mercato, secondo tre diverse metodologie:

  • rivalutazione del costo storico;
  • riduzione del fondo ammortamento;
  • rivalutazione del costo storico e del fondo ammortamento.

Sul piano tributario l’impresa interessata potrà optare sia per l’affrancamento, anche parziale, della rivalutazione mediante il versamento di una imposta sostitutiva del 10%, sia per il riconoscimento del maggior valore ai fini fiscali tramite il pagamento di una imposta sostitutiva del 3%.

Nel complesso, quindi, se il 2020 può essere considerato l’annus horribilis (anche) per il sistema economico del nostro Paese, verosimilmente le deroghe ai principi contabili messe in campo dalla legislazione emergenziale potranno alleviare gli effetti negativi della pandemia sui saldi di bilancio, anche se per valutarne la concreta efficacia presumibilmente occorrerà attendere il termine dell’emergenza sanitaria.

Andrea Dili
Dottore Commercialista, esperto di Welfare Index PMI