Decreto Aiuti Quater: welfare aziendale 2022 fino a 3mila euro.

Il decreto Aiuti Quater (DL 18 novembre 2022, n. 176) estende ulteriormente il limite di non imponibilità dei fringe benefits ai fini del calcolo delle imposte sui redditi.

Se, infatti, in via generale l’articolo 51, comma 3 del TUIR prevede la non imponibilità ai fini delle imposte sui redditi dei fringe benefits ricevuti dai lavoratori dipendenti, a condizione che il loro valore non oltrepassi l’ammontare annuo di 258,23 euro, tale limite viene fissato – per il solo 2022 – a 3mila euro. Si ricorda che lo stesso valore, per effetto della normativa emergenziale varata nel corso della pandemia Covid-19, era già stato transitoriamente innalzato a 516,46 euro per gli anni 2020 e 2021 e, più recentemente (con il decreto Aiuti Bis, DL n. 115/2022), a 600 euro per il 2022. L’ulteriore innalzamento a 3mila euro, quindi, trova la sua collocazione nel contesto delle norme varate dal nuovo Governo al fine di fronteggiare il caro bollette. L’attribuzione dei fringe benefits ai dipendenti, infatti, consente di beneficiare del trattamento fiscale di vantaggio consistente nella deducibilità delle somme erogate in capo al datore di lavoro e nella contestuale non imponibilità in capo al dipendente beneficiario. In altre parole, rispetto agli altri strumenti premiali e a parità di costo per il datore di lavoro, l’utilizzo del fringe benefit genera una maggiore disponibilità economica per il percettore.

L’ambito di applicazione di tali misure è stato recentemente oggetto della Circolare dell’Agenzia delle Entrate n. 35/e del 4 novembre 2022, intervenuta a commentare le novità introdotte dall’articolo 12 del decreto Aiuti Bis (DL n. 115/2022). Quest’ultima norma, peraltro, non si limita a innalzare il predetto limite di non imponibilità a 600 euro (ora 3mila), ma tratteggia un significativo ampliamento degli strumenti inquadrabili tra i fringe benefits. Viene infatti, specificato che, per il solo 2022, potranno concorrere a determinare il suddetto limite di 3mila euro anche le somme erogate o rimborsate dai datori di lavoro per il pagamento delle utenze domestiche, del servizio idrico integrato, dell’energia elettrica e del gas naturale.

Seppur circoscritto al solo 2022, quindi, si tratta di un complesso di misure assai ragguardevoli. Al fine di usufruire correttamente dell’opportunità, tuttavia, si rende necessario prestare molta attenzione alle indicazioni operative fornite dall’Agenzia delle Entrate. In particolare, meritano una distinta menzione due passaggi della Circolare: il primo dove viene precisato che – in ottemperanza a quanto sancito dall’articolo 51, comma 3 del TUIR – l’eventuale superamento della soglia di 3mila euro implica l’assoggettamento a tassazione dell’intero importo percepito; il secondo dove viene evidenziato che la norma in esame rappresenta una agevolazione ulteriore rispetto al bonus carburante disciplinato dall’articolo 2 del DL n. 21/2022 e che, pertanto, le due misure sono cumulabili. In buona sostanza, quindi, nel 2022 ciascun lavoratore potrà percepire fino a 200 euro di buoni benzina e un massimo di 3mila euro di ulteriori benefits.

Andrea Dili
Dottore Commercialista, esperto di Welfare Index PMI

Decreto Aiuti ter, 150 euro per dipendenti e partite iva

Il decreto Aiuti ter (DL n. 144/2022), pubblicato in Gazzetta Ufficiale lo scorso 23 settembre, istituisce una nuova indennità una tantum a favore delle persone fisiche. Il bonus, che ammonta a 150 euro, va ad aggiungersi ai 200 euro già previsti dal primo decreto Aiuti e già erogati a tutte le categorie interessate, con eccezione di autonomi e professionisti.

Gli articoli 18, 19 e 20 del decreto definiscono l’ampio novero dei beneficiari, individuandoli nelle seguenti categorie:

1) lavoratori dipendenti;
2) titolari di trattamenti pensionistici;
3) lavoratori domestici;
4) collaboratori coordinati e continuativi;
5) lavoratori stagionali;
6) lavoratori intermittenti;
7) lavoratori occasionali;
8) incaricati alle vendite a domicilio;
9) collaboratori sportivi;
10) lavoratori dello spettacolo;
11) percettori di ammortizzatori sociali  (Naspi, Dis-Coll e indennità di disoccupazione agricola);
12) nuclei familiari che percepiscono il reddito di cittadinanza;
13) lavoratori autonomi e professionisti iscritti alle gestioni INPS;
14) professionisti iscritti alle Casse di previdenza autonome.

Posto che ciascun beneficiario, anche se appartenente a più di una categoria (ad es. lavoratore autonomo titolare di pensione), potrà percepire l’indennità una sola volta, e che la stessa non concorrerà alla formazione del reddito né ai fini fiscali né a quelli previdenziali, è opportuno soffermarsi sulle diverse modalità di erogazione previste dalle norme.

Preliminarmente è opportuno rilevare come, rispetto al precedente bonus di 200 euro, l’accesso all’indennità sia regolato da requisiti reddituali generalmente più stringenti, differenziati a seconda della categoria di appartenenza del percettore.

I lavoratori dipendenti potranno beneficiare della nuova indennità soltanto a condizione di maturare, con riferimento al mese di novembre 2022, una retribuzione imponibile non superiore a 1.538 euro. Limite che, ragguagliato ad anno, si attesta sul valore di 20mila euro (a fronte del tetto di 35mila euro che regolava il precedente bonus di 200 euro). Gli aventi diritto riceveranno i 150 euro con il pagamento della busta paga di novembre, dopo avere preventivamente fornito al proprio datore di lavoro la dichiarazione di non essere né titolari di pensione né percettori del reddito di cittadinanza. I datori di lavoro compenseranno l’indennità liquidata attraverso la denuncia Uniemens.

I titolari di trattamenti pensionistici riceveranno automaticamente l’indennità a condizione di aver realizzato nel 2021 un reddito imponibile Irpef – calcolato al netto dei contributi previdenziali e assistenziali e con esclusione del valore derivante dalla casa di abitazione, dei trattamenti di fine rapporto e delle competenze arretrate soggette a tassazione separata – non superiore a 20mila euro.

Un discorso a parte va fatto per le persone fisiche titolari di partita iva, lavoratori autonomi e professionisti. Tali soggetti, infatti, non hanno ancora ricevuto la prima indennità (200 euro), in considerazione del fatto che si era in attesa della pubblicazione del decreto interministeriale che ne avrebbe dovuto definire le modalità di erogazione. Tale decreto è stato pubblicato in Gazzetta Ufficiale in data 24 settembre; successivamente, in data 26 settembre, l’INPS ha emanato una circolare esplicativa della misura (Circolare n. 103). Definito, quindi, il quadro sistematico della fattispecie, viene chiarito che tali soggetti riceveranno in una unica soluzione sia l’indennità di 200 euro che quella di 150 euro. In altre parole, autonomi e professionisti riscuoteranno:

  • 350 euro se il reddito complessivo prodotto nel 2021 non supera 20mila euro;
  • 200 euro se esso è compreso tra 20.001 e 35mila euro.

La stessa circolare chiarisce che l’indennità sarà erogata, previa presentazione di una apposita istanza, ai soggetti che alla data del 18 maggio 2022 risultavano iscritti alle seguenti gestioni dell’INPS:

1) artigiani;
2) esercenti attività commerciali;
3) gestione speciale per i coltivatori diretti e per i coloni e mezzadri;
4) pescatori autonomi;
5) liberi professionisti della gestione separata.

Dopo aver verificato il possesso dei requisiti richiesti dalla legge, quindi, gli interessati dovranno presentare entro il 30 novembre 2022 una specifica domanda attraverso uno dei tre canali indicati dalla circolare, ovvero:

  • il sito dell’INPS, accedendo con SPID, CIE o CNS;
  • il servizio di Contact Center dell’INPS;
  • un Patronato.

I professionisti iscritti alle Casse di previdenza private, invece, dovranno rivolgersi ai propri Enti di appartenenza, che provvederanno autonomamente all’erogazione dell’indennità con modalità analoghe a quelle previste per gli iscritti all’INPS.

Andrea Dili
Dottore Commercialista, esperto di Welfare Index PMI

Buoni pasto anche in smart working?

di Andrea Dili – Dottore Commercialista

Come noto i ticket restaurant, o più comunemente buoni pasto, sono dei coupon forniti dal datore di lavoro ai propri collaboratori al fine di usufruire di servizi sostitutivi di mensa.
A ben vedere si tratta di uno strumento molto diffuso, sia nelle grandi organizzazioni che nelle strutture di piccole dimensioni, vuoi per l’estrema semplicità di gestione vuoi, soprattutto, per i sostanziosi vantaggi fiscali che ne derivano. In via generale, infatti, i buoni pasto possono essere annoverati nella categoria dei fringe benefits, ovvero quelle forme di retribuzione in natura che, entro determinati limiti, non concorrono alla formazione del reddito imponibile del percettore.

In particolare, se per qualsiasi datore di lavoro – imprenditore o lavoratore autonomo – la spesa per l’acquisto dei buoi pasto costituisce un costo integralmente deducibile ai fini delle imposte sui redditi (come peraltro specificato dalla stessa Agenzia delle entrate nella circolare 6/E del 3 marzo 2009), per il lavoratore dipendente che ne beneficia esso rappresenta una utilità esclusa da tassazione, nei termini stabiliti dall’articolo 51, comma 3, lettera c) del TUIR, ovvero fino a un importo massimo di:

4 euro giornalieri se il buono pasto viene emesso in forma cartacea;
8 euro giornalieri se si tratta di ticket elettronico.

Analogamente, ai fini contributivi, i buoni pasto non costituiscono un elemento della retribuzione del lavoratore (sempreché accordi e contratti collettivi, anche aziendali, non dispongano diversamente), come statuito dall’articolo 6, comma 3 del Dl 11 luglio 1992 n. 333.
Si può pertanto facilmente intuire come l’utilizzo dei buoni pasto possa rappresentare anche una utile leva per rendere meno gravoso, o comunque ridurre, il divario tra l’ammontare lordo del costo del lavoro e quello netto della busta paga del dipendente (cosiddetto “cuneo fiscale), particolarmente rilevante nel nostro Paese.

Opportunità, è bene precisarlo, che può essere colta anche nel caso in cui i lavoratori beneficiari operino in modalità smart working: sul punto è interessante la precisazione fornita dall’Agenzia delle entrate in risposta a un interpello formulato da un ente bilaterale. Con la risposta n. 123 del 22 febbraio 2021, infatti, l’Agenzia ha chiarito che i buoni pasto possono essere attribuiti ai dipendenti (anche a tempo parziale) indipendentemente dal fatto che l’orario di lavoro contempli o meno una pausa pranzo. Per tali ragioni anche i lavoratori in smart working possono beneficiare della defiscalizzazione dei buoni pasto loro assegnati nei limiti generali sopra riportati.

Andrea Dili

Dottore Commercialista, esperto di Welfare Index PMI

Con le ultime modifiche, il bonus carburante è stato allargato anche agli studi professionali e al terzo settore.

di Andrea Dili – Dottore Commercialista

Dalla conversione in legge del Decreto Ucraina Bis (DL n. 21/2022) emerge una importante novità in relazione al cosiddetto “bonus carburanti” (o benzina): se infatti la formulazione originaria dell’articolo 2 del provvedimento circoscriveva l’accesso alla misura ai soli  lavoratori subordinati delle aziende private, ne viene ora previsto l’allargamento ai dipendenti degli studi professionali e degli enti del terzo settore. In buona sostanza, quindi, l’opportunità di percepire il bonus benzina spetta ai lavoratori dipendenti di tutti i datori di lavoro privati, indipendentemente dalla forma giuridica assunta da questi ultimi.

Per comprendere la portata della misura occorre preliminarmente definirne il perimetro, tratteggiato dalla norma sotto molteplici aspetti, ovvero:

  • in primo luogo l’ammontare, che per ciascun dipendente non potrà superare la somma di 200 euro, somma che dovrà essere erogata attraverso buoni benzina o titoli analoghi;
  • in secondo luogo la temporaneità, visto che il contributo è circoscritto all’anno solare 2022;
  • infine –  il punto certamente più rilevante – la non imponibilità del bonus ai fini del calcolo delle imposte sui redditi e della determinazione dei contributi previdenziali del percettore.

Va altresì chiarito che non si tratta di una indennità necessariamente dovuta, ma di una liberalità che il datore di lavoro potrà o meno concedere ai propri dipendenti: in tal senso, lo strumento, è assimilabile a un fringe benefit. Non si tratta, quindi di una concessione obbligatoria, ma di un bonus che può essere erogato su libera iniziativa del datore di lavoro. Ne consegue che il contributo in esame non dovrà essere necessariamente assegnato alla generalità dei dipendenti o a specifiche categorie di essi, ma che potrà essere erogato anche a singoli lavoratori. Va tuttavia rilevato che lo stesso contributo potrebbe essere oggetto di trattativa sindacale o attribuito nell’ambito di accordi di welfare aziendale. 

In ogni caso, l’aspetto più vantaggioso risiede nel fatto che se il contributo non concorre alla formazione del reddito del lavoratore ai sensi dell’articolo 51 comma 3 del TUIR, per il datore di lavoro costituisce un costo (o spesa) integralmente deducibile sia ai fini Ires che Irpef. Senza contare che il bonus benzina non dovrà essere incluso nel calcolo del limite di non imponibilità generale dei fringe benefit, individuato dalla medesima norma nell’ammontare massimo di 258,23 euro: sul piano fiscale, quindi, le due misure potranno essere cumulate senza aggravio di imposte per il percettore.

Andrea Dili

Dottore Commercialista, esperto di Welfare Index PMI

Dal Decreto Aiuti un bonus forfettario di 200 euro per dipendenti e partite iva: come erogarlo e come recuperarlo.

di Andrea Dili – Dottore Commercialista

Al fine di moderare gli effetti del caro prezzi dei primi mesi del 2022, il Decreto Aiuti (DL 17 maggio 2022, n. 50) ha istituito una specifica indennità una tantum a favore delle persone fisiche. In particolare, gli articoli 31, 32 e 33 del decreto assegnano tale indennità a una diffusa platea di soggetti, ovvero:

1) lavoratori dipendenti;
2) lavoratori autonomi e professionisti iscritti alle gestioni INPS;
3) professionisti iscritti alle Casse di previdenza autonome;
4) pensionati;
5) lavoratori domestici;
6) percettori di Naspi, Dis-Coll e indennità di disoccupazione agricola;
7) collaboratori coordinati e continuativi;
8) lavoratori stagionali;
9) lavoratori sportivi;
10) lavoratori intermittenti;
11) lavoratori dello spettacolo;
12) lavoratori occasionali;
13) incaricati alle vendite a domicilio;
14) beneficiari del reddito di cittadinanza.

A ben vedere, quindi, potranno accedere alla misura la maggior parte dei lavoratori e pensionati italiani, tant’è che si stimano ben 31,5 milioni di beneficiari.

Per ottenere l’indennità vengono previste procedure diverse a seconda della categoria di appartenenza. Se, infatti, pensionati, disoccupati, beneficiari del reddito di cittadinanza e lavoratori stagionali del turismo, degli stabilimenti termali, dello spettacolo e dello sport percepiranno la somma automaticamente, i lavoratori dipendenti dovranno preventivamente inviare una apposita autodichiarazione al proprio datore di lavoro, mentre gli appartenenti alle altre categorie potranno ricevere l’indennità soltanto dopo aver presentato una specifica domanda.

In questa sede è opportuno soffermarsi sui requisiti e sulle modalità operative che dovranno essere seguite da lavoratori dipendenti e autonomi, che rappresentano, insieme ai pensionati, la grande maggioranza dei destinatari della misura.
Per quanto riguarda i lavoratori dipendenti il bonus viene fissato in un ammontare forfettario di 200 euro, da erogare, a cura dei datori di lavoro, con la mensilità di luglio. Le somme così liquidate saranno recuperate dai datori di lavoro attraverso la denuncia contributiva Uniemens dello stesso mese.

Relativamente ai requisiti soggettivi, viene specificato che potranno accedere all’indennità i lavoratori dipendenti che, relativamente ad almeno uno dei primi quattro mesi del 2022, hanno usufruito dell’esonero previdenziale (0,8 punti percentuali) previsto dal comma 121 dell’articolo 1 della legge di Bilancio dello Stato per il 2022 (legge 30 dicembre 2021, n. 234). Tale norma circoscrive il novero dei beneficiari a coloro che conseguono una retribuzione imponibile ai fini contributivi (parametrata su base mensile per tredici mensilità) non superiore a 2.692 euro mensili. Come accennato, il lavoratore che soddisfa il predetto requisito dovrà comunicare al proprio datore di lavoro di avere diritto alla predetta indennità, rilasciando una apposita dichiarazione, in cui dovrà essere specificato di non aver già percepito la somma e di non averla comunque richiesta ad altri datori di lavoro. Tale dichiarazione si rende necessaria poiché lo stesso lavoratore potrebbe aver maturato il diritto al bonus in virtù della titolarità di ulteriori posizioni riconosciute dalla norma: è bene precisare, infatti, che per ciascuna persona fisica il riconoscimento dell’indennità può avvenire una sola volta. Ricevuta l’autodichiarazione il datore di lavoro procederà alla erogazione della somma.

A differenza delle altre categorie di beneficiari, per i lavoratori autonomi e i professionisti non vengono specificati né i requisiti di accesso né l’ammontare dell’indennità. La norma, infatti, si limita a istituire un “Fondo per il sostegno del potere di acquisto dei lavoratori autonomi”, con una dotazione finanziaria di 500 milioni di euro. Quindi per i lavoratori autonomi e i professionisti iscritti alle gestioni INPS (titolari di partita iva iscritti alla gestione separata, artigiani e commercianti, agricoltori) e i professionisti iscritti alle Casse di previdenza autonome il diritto di percepire l’indennità scatterà a condizione di avere percepito nel 2021 un reddito non superiore al valore stabilito con un apposito decreto del Ministro del lavoro di concerto con il Ministro dell’economia. Con il medesimo decreto dovranno essere definiti i criteri e le modalità per la concessione dell’indennità, che presumibilmente ricalcheranno quelli recentemente utilizzati per gestire l’erogazione delle misure economiche di contrasto alla pandemia Covid-19.

Occorre sottolineare, infine, come tali indennità non concorreranno, ai fini fiscali, alla determinazione del reddito imponibile dei percettori, qualificandosi, quindi, somme esenti da imposta.

Andrea Dili
Dottore Commercialista, esperto di Welfare Index PMI

La riforma fiscale

di Andrea Dili – Dottore Commercialista

Nei giorni scorsi le commissioni finanze della Camera dei Deputati e del Senato hanno reso pubbliche le conclusioni dell’indagine conoscitiva sulla riforma fiscale avviata nove mesi fa e condotta attraverso ben 61 audizioni, che hanno visto la partecipazione delle parti sociali e di alcuni dei massimi esperti di diritto tributario.

La relazione conclusiva, che contiene la sintesi condivisa delle posizioni espresse dalle varie forze politiche, fornisce interessanti indicazioni su quelle che, presumibilmente, saranno le linee di intervento seguite dal Governo nel momento del varo della annunciata riforma fiscale.

Il documento parlamentare è articolato in due capitoli, il primo focalizzato sugli obiettivi di fondo della riforma, il secondo su alcune proposte ritenute utili per raggiungere tali obiettivi. Già dalla lettura del sommario si può comprendere come il lavoro delle commissioni, inizialmente focalizzato sull’imposta sui redditi delle persone fisiche (IRPEF), abbracci un orizzonte ben più ampio, andando a incidere su alcuni elementi cardine del sistema tributario italiano e, più in generale, sul rapporto fisco/contribuente nell’ottica dello stimolo alla crescita economica del Paese.

È proprio il tema della crescita, infatti, ad aprire la riflessione delle commissioni, che rilevano come il cattivo funzionamento del sistema fiscale sia una zavorra che pesa inesorabilmente sulla competitività del sistema Italia, confermando peraltro quanto più volte emerso dalle migliori ricerche internazionali. Quale, ad esempio, il rapporto annuale sulla competitività economica stilato dalla Banca Mondiale, Doing Business 2020, che nel ranking che misura la complessità dei sistemi fiscali vede l’Italia occupare il 128esimo posto (tra il Mozambico e il Myanmar) su 190 paesi.

Partendo da tale constatazione, le commissioni propongono una revisione del modello fiscale italiano sulla base di tre linee di intervento:

  1. la riduzione della tassazione sul lavoro, orientamento peraltro già seguito nell’ultimo decennio attraverso varie misure concentrate esclusivamente sul lavoro dipendente (decontribuzioni ebonus);
  2. la razionalizzazione delle aliquote marginali effettive, che disincentivano l’offerta di lavoro e amplificano le distorsioni del sistema;
  3. la semplificazione, declinata nel riordino delle norme fiscali in testi unici, nell’elevazione di alcune parti dello statuto del contribuente a rango costituzionale, nella cancellazione di una pluralità di tributi minori e nell’avvicinamento del bilancio fiscale a quello civilistico.

Un programma certamente molto ambizioso, ricordando che di riequilibrio del rapporto tra fisco e contribuenti si discute da lungo tempo con l’obiettivo di ridurre gli adempimenti fiscali a carico di imprese e professionisti.

Per raggiungere tali obiettivi le commissioni individuano, non senza contraddizioni, una serie di misure: dalla revisione del modello IRPEF al superamento dell’IRAP, dalla reintroduzione dell’IRI alla semplificazione dell’IRES. Tali indicazioni assumono particolare rilievo poiché, come già dichiarato da autorevoli esponenti del Governo, le conclusioni dell’indagine conoscitiva effettuata dalle commissioni parlamentari costituiranno il punto di partenza della riforma fiscale preannunciata anche all’interno del PNRR. Proviamo, quindi, a esaminarle sinteticamente.

Per quanto riguarda l’imposizione sui redditi delle persone fisiche (IRPEF) vengono declinati una pluralità di interventi, il più significativo dei quali afferisce alla riduzione della aliquota media effettiva sopportata dai contribuenti della cosiddetta “classe media” (tra 28mila e 55mila euro di reddito) e alla armonizzazione delle aliquote marginali effettive, da realizzarsi attraverso “un intervento semplificatore sul combinato disposto di scaglioni, aliquote e detrazioni per tipologia di reddito”, le cui modalità attuative non vengono tuttavia specificate. Le commissioni, inoltre, propongono l’introduzione di un reddito “minimo esente”, rinforzato per i giovani under 35, al di sotto del quale verrebbe meno l’obbligo di presentare la dichiarazione dei redditi. Viene infine ravvisata l’esigenza di tagliare il numero delle detrazioni d’imposta, numero cresciuto notevolmente nel corso dell’ultimo ventennio.

Per quanto riguarda le persone fisiche con partita iva viene proposto un rafforzamento del modello forfettario che, attraverso un meccanismo assai complesso, verrebbe esteso, a determinate condizioni, anche a coloro che superano l’attuale soglia di 65mila euro di ricavi (o compensi) annui, ripescando in forma ridotta la cosiddetta “flattax fino a 100mila euro” introdotta dal Governo Conte 1 e soppressa dal Governo Conte 2 prima della sua effettiva entrata in funzione.

Come accennato, poi, per imprese individuali e società di persone in contabilità ordinaria viene riproposto il regime opzionale IRI (imposta sul reddito di impresa), già introdotto dalla legge di bilancio 2018 e successivamente abrogato senza mai essere utilizzato, che consentirebbe a tali soggetti di applicare una aliquota proporzionale nel caso in cui l’utile prodotto venisse reinvestito nell’impresa.

Sembrano, invece, particolarmente interessanti le proposte in merito alla revisione del modello di imposizione sui redditi di natura finanziaria: in primo luogo l’attuale frammentazione di tali tipologie di redditi ai fini fiscali, che genera effetti distorsivi, verrebbe ricondotta a unitarietà; in secondo luogo viene immaginata una forte incentivazione degli investimenti nella previdenza complementare.

Al contrario, appaiono ancora non ben definite le indicazioni afferenti l’imposta regionale sulle attività produttive (IRAP), che verrebbe superata attraverso una traslazione del gettito su altri tributi.

Le novità più ragguardevoli, non senza sorpresa considerando che il dibattito degli ultimi mesi è stato incentrato quasi esclusivamente sull’IRPEF, si registrano in merito all’imposta sul reddito delle società (IRES), dove verrebbero messi in campo specifici incentivi volti a migliorare la produttività delle imprese e la crescita dell’intero sistema imprenditoriale italiano. Di particolare rilevanza, infatti, appare l’incentivazione delle aggregazioni di imprese di dimensioni minori: la frammentazione del tessuto imprenditoriale, infatti, costituisce un freno all’incremento della produttività. Sul medesimo piano anche le misure volte a promuovere l’impiego dell’utile di esercizio in investimenti a favore della produttività e dell’incremento dei posti di lavoro. Non potevano mancare, inoltre, considerando il contesto post pandemico e le linee dettate dal PNRR, specifiche misure a favore della transizione ecologica, tra le quali l’incentivazione alla riqualificazione energetica e ambientale e alla decarbonizzazione.

Il documento delle commissioni parlamentari, infine, si chiude con alcune proposte volte al miglioramento del rapporto tra fisco e contribuenti. Certamente apprezzabile, anche se per valutarne la reale efficacia occorrerà verificare le concrete modalità di attuazione, è l’idea di “scambiare” l’universalizzazione della fatturazione elettronica – che sarebbe estesa a tutti i soggetti oggi esentati, quali ad esempio i forfettari – e più in generale degli strumenti digitali con la riduzione degli adempimenti per imprese e professionisti. Ancora più meritevole, se attuata, sarebbe l’intenzione di garantire l’interoperabilità delle banche dati. In merito, occorre ricordare come nel corso del recente ciclo di audizioni tenutosi presso la Commissione parlamentare di vigilanza sull’anagrafe tributaria sia emerso che il Ministero dell’Economia e delle Finanze, unitamente alle agenzie di riferimento, gestisce ben 161 banche dati: una mole di informazioni che, se correttamente utilizzata, potrebbe risolvere gran parte del problema dell’evasione fiscale.

A ben vedere, sintetizzando, la relazione delle commissioni parlamentari appare un insieme di proposte di indirizzo verso una revisione di un sistema tributario che, dati alla mano, necessiterebbe di una riforma complessiva per risultare più efficiente. Un risultato che presumibilmente risente della necessità di trovare una sintesi tra forze politiche eterogenee e della scarsità di risorse finanziarie disponibili. Vedremo nei prossimi mesi, quando l’iniziativa passerà al Governo, se le sintesi che verranno raggiunte condurranno a un sistema fiscale più equilibrato ed efficiente.

Andrea Dili
Dottore Commercialista, esperto di Welfare Index PMI

Le riforme e gli investimenti del Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza

di Andrea Dili – Dottore Commercialista

Qualche giorno fa il Governo italiano ha inviato all’UE il Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (PNRR), il programma di riforme e investimenti che – nell’ambito degli interventi afferenti il Next Generation EU (NGEU) – definisce la strategia italiana per la ripartenza post pandemia. Il PNRR, quindi, delinea le azioni che nei prossimi anni (dal 2021 al 2026) saranno messe in campo per riformare e modernizzare il nostro Paese, con l’obiettivo di ridurne – se non colmarne – i divari strutturali.

Per tali ragioni cittadini e, soprattutto, operatori economici dovrebbero prestare particolare attenzione alle indicazioni contenute nelle 270 pagine del PNRR, al fine di poterne tempestivamente cogliere le (numerose) opportunità.

Venendo alla struttura del Piano occorre evidenziare che esso è stato costruito attorno a tre assi portanti: digitalizzazione e innovazione, transizione ecologica e inclusione sociale. In tale contesto viene declinato un complesso di riforme e investimenti che nelle intenzioni del Governo dovrebbero:

  • accrescere la competitività, l’efficienza e l’equità del nostro Paese;
  • incoraggiare gli investimenti;
  • ampliare la fiducia dei cittadini e degli operatori economici.

Per quanto riguarda le riforme gli obiettivi individuati nel PNRR sono piuttosto ambiziosi, toccando segmenti della pubblica amministrazione che già in passato sono stati oggetto di tentativi di riorganizzazione raramente andati a buon fine: tra questi meritano particolare menzione la semplificazione delle norme e delle procedure, l’accrescimento delle competenze e la digitalizzazione della P.A., la riforma della giustizia (civile, tributaria e penale), con l’obiettivo prioritario di ridurre i tempi del giudizio, e dell’ordinamento giudiziario, le semplificazioni in materia edilizia, ambientale e dei pubblici appalti, la promozione della concorrenza anche attraverso lo sviluppo delle telecomunicazioni. Vengono, infine, citate la revisione dell’IRPEF e la riforma degli ammortizzatori sociali, di cui Governo e Parlamento, peraltro, si stanno già occupando anche con il coinvolgimento delle parti sociali.

Le sei missioni del PNRR

La parte più corposa del Piano viene dedicata alle modalità di investimento con le quali saranno impiegate le risorse che l’Italia riceverà dall’Europa, stimate in 191,5 miliardi di euro, di cui 68,9 di sovvenzioni e 122,6 di prestiti. Lo schema degli interventi viene rappresentato in sei diverse missioni, ciascuna delle quali viene a sua volta esplosa in una pluralità di componenti. In particolare:

  • la prima missione, finanziata con 40,73 miliardi di euro, è dedicata a digitalizzazione, innovazione, competitività e cultura;
  • la seconda, per la quale vengono stanziati 59,33 miliardi, afferisce alla cosiddetta rivoluzione verde e transizione ecologica;
  • la terza, cui sono assegnati 25,13 miliardi, viene denominata infrastrutture per una mobilità sostenibile;
  • la quarta, per la quale sono previsti 30,88 miliardi, è destinata a istruzione e ricerca;
  • la quinta, sovvenzionata con 19,81 miliardi, prevede interventi finalizzati a inclusione e coesione;
  • la sesta, sovvenzionata con 15,63 miliardi, viene infine dedicata al tema della salute.

Digitalizzazione, innovazione, competitività e cultura

La prima missione viene immaginata attraverso tre linee di intervento: la digitalizzazione della pubblica amministrazione – dove obiettivo centrale è rappresentato dalla migrazione verso il cloud – il sostegno alla transizione digitale e alla competitività delle imprese – per il quale vengono stanziati ben 24,3 miliardi di euro, la maggior parte dei quali (13,97) assorbiti dalle misure afferenti il piano “Transizione 4.0” e dallo sviluppo delle reti ultraveloci (6,31), con investimenti su banda ultra larga e 5G – e sul settore del turismo e della cultura – dove i 6,68 miliardi assegnati vengono oltremodo spalmati su una pluralità di iniziative.

Rivoluzione verde e transizione ecologica

Seguendo le indicazioni europee, la maggior parte delle risorse del PNRR viene assegnata alla transizione ecologica del Paese. In tale contesto una particolare attenzione viene dedicata al tema strategico della gestione dei rifiuti, con investimenti, previsti soprattutto nel Centro-Sud Italia, volti ad accrescere la capacità e la qualità degli impianti. Gli investimenti più corposi (23,78 miliardi), tuttavia, sono previsti sulle energie rinnovabili (fotovoltaico, biometano), sulla gestione “intelligente” delle reti di distribuzione energetica, sull’utilizzo dell’idrogeno (anche promuovendone la sperimentazione per il trasporto stradale e ferroviario) e sul trasporto sostenibile. Sono, infine, confermati eco bonus e sisma bonus (13,81 miliardi) mentre vengono previsti robusti investimenti sulla prevenzione del dissesto idrogeologico e sul miglioramento delle infrastrutture idriche.

Infrastrutture per una mobilità sostenibile

La quasi totalità (24,77 miliardi) delle risorse allocate sulla terza missione sono dedicate alla rete ferroviaria, dove vengono previsti investimenti sia sul trasporto merci che passeggeri, potenziando tanto le tratte ad alta velocità che i trasporti locali. In merito si tenterà di colmare il gap del nostro Paese rispetto alle migliori esperienze europee, sia al sud che al nord Italia, con l’obiettivo di ridurre i tempi di percorrenza e aumentare la capacità della rete ferroviaria in termini di flussi.

Istruzione e ricerca

Particolarmente rilevanti sono i temi toccati dalla quarta missione, che stanzia importanti risorse sugli asili nido (4,6 miliardi) e sull’edilizia scolastica (3,9 miliardi), dove il nostro Paese sconta rilevanti carenze strutturali. Ulteriori risorse (11,44 miliardi) vengono allocate sulla seconda componente della missione (ricerca di base e applicata), promuovendo lo sviluppo di sinergie tra imprese e università.

Inclusione e coesione

La quinta missione è rivolta al potenziamento delle politiche attive per il lavoro – delineando un programma nazionale di presa in carico e ricollocazione dei disoccupati, l’implementazione del piano “nuove competenze”, il rafforzamento dei centri per l’impiego e il sostegno all’imprenditoria femminile – alla promozione di progetti, dedicati ai comuni con più di 15mila abitanti, per la rigenerazione urbana e l’housing sociale e a specifici interventi per la coesione territoriale, tra i quali il rafforzamento delle zone economiche speciali.

Salute

L’ultima missione viene articolata in due componenti: il rafforzamento delle prestazioni erogate sul territorio – grazie allo sviluppo di reti di prossimità e strutture intermedie (case e ospedali “della comunità”) e all’utilizzo della telemedicina – e la digitalizzazione del servizio sanitario nazionale anche attraverso l’implementazione del fascicolo sanitario elettronico.

Conclusioni

Pur se sommariamente esposta, la strategia del PNRR è evidentemente volta a colmare i principali deficit strutturali che penalizzano il nostro Paese. Tuttavia, per non rimanere un “libro dei sogni” saranno necessarie almeno due condizioni: in primo luogo il rispetto dei tempi e delle modalità di attuazione delle misure declinate, in secondo luogo, soprattutto, la capacità di comprendere che il PNRR, seppur supportato da risorse rilevanti, non sarà sufficiente a centrare gli obiettivi proposti se non inserito in un percorso di riforme a medio lungo termine che affronti i nodi irrisolti che ogni anno, puntualmente, ci vengono ricordati da studi e ricerche internazionali.

Andrea Dili
Dottore Commercialista, esperto di Welfare Index PMI

Il contributo a fondo perduto del Decreto Sostegni

di Andrea Dili – Dottore Commercialista

Il primo decreto emergenziale del Governo Draghi, denominato “Sostegni”, si apre con un nuovo contributo a fondo perduto riconosciuto ai soggetti titolari di partita iva danneggiati dall’emergenza sanitaria COVID-19. Se sul piano tecnico la misura si pone in continuità con quelle, analoghe, varate nel corso del 2020 dal Governo Conte, sul piano sostanziale emergono importanti elementi di novità, primo tra tutti il significativo ampliamento della platea dei beneficiari.

I beneficiari

Il contributo viene universalmente riconosciuto ai titolari di reddito agrario e agli esercenti attività d’impresa o arti e professioni che nel secondo periodo d’imposta antecedente alla data del 23 marzo 2021 (ovvero nel 2019 per le persone fisiche e per i soggetti diversi dalle persone fisiche con esercizio coincidente con l’anno solare) hanno conseguito ricavi o compensi non superiori a 10 milioni di euro. Rispetto ai decreti di autunno, quindi, viene meno il requisito dello svolgimento di attività identificate in specifici codici ATECO. 

Sono, infine, inclusi nel novero dei beneficiari gli enti non commerciali, anche se soltanto in relazione allo svolgimento di attività commerciali, mentre ne sono espressamente esclusi gli enti pubblici, gli intermediari finanziari e le società di partecipazione.

I requisiti

L’accesso al contributo è condizionato al rispetto di due requisiti oggettivi:

  • essere titolari di una partita iva attiva alla data del 23 marzo 2021;
  • avere registrato nel 2020 un calo del fatturato medio mensile di almeno il 30% rispetto al 2019. 

Quest’ultimo requisito non è richiesto a coloro che hanno attivato la partita iva successivamente al 31 dicembre 2018. 

Il computo del contributo

Il procedimento di calcolo della somma spettante è piuttosto articolato: in estrema sintesi occorre applicare alla differenza tra il fatturato medio mensile del 2019 e quello del 2020 uno specifico coefficiente dimensionale, variabile dal 20% al 60% a seconda del volume dei ricavi realizzati, tenendo conto che l’ammontare del contributo non potrà essere inferiore a 1.000 o 2.000 euro (rispettivamente per le persone fisiche e per i soggetti diversi dalle persone fisiche) né superiore a 150.000 euro.

Ai fini del computo del fatturato medio mensile afferente il 2019, poi, rileva la data di inizio dell’attività, ovvero:

  • i titolari di partita iva attiva al 31 dicembre 2018 divideranno il fatturato complessivo realizzato nel 2019 per 12 mesi;
  • chi ha aperto la partita iva dal 1 gennaio al 30 novembre 2019 dovrà calcolare un quoziente, che vede al numeratore il fatturato realizzato dal primo giorno del mese successivo a quello di avvio dell’attività e al denominatore il numero dei corrispondenti mesi (ad esempio, se la partita iva è stata attivata in data 14 luglio 2019, dividendo il fatturato realizzato dal primo agosto al 31 dicembre 2019 per 5 mesi).

I soggetti che hanno avviato l’attività dal 1 dicembre 2019 al 23 marzo 2021, invece, non potendo determinare il fatturato medio mensile afferente il 2019, riceveranno il contributo minimo di 1.000 o 2.000 euro.

Il coefficiente dimensionale, infine, dovrà essere determinato in relazione al volume dei ricavi o compensi conseguiti nel secondo periodo d’imposta antecedente a quello in corso al 23 marzo 2021 (ovvero il 2019 per le persone fisiche e per i soggetti con esercizio coincidente con l’anno solare), come indicato nella seguente tabella.

Una volta determinata la differenza tra fatturato medio mensile 2019 e 2020 e individuato il coefficiente dimensionale, si potrà procedere alla determinazione del contributo spettante, seguendo il procedimento mostrato nella seguente tabella.

Modalità di fruizione del contributo

Gli aventi diritto potranno usufruire del contributo scegliendo tra due diverse modalità:

  • accredito della somma sul conto corrente bancario;
  • “trasformazione” del contributo in credito d’imposta, da utilizzare in compensazione con altri tributi e contributi sul modello di pagamento F24.

La scelta dovrà essere fatta in sede di presentazione della domanda, esercitando la relativa opzione in calce all’istanza con cui si richiede il contributo.

Come richiedere il contributo

Come accennato, il contributo dovrà essere richiesto compilando l’apposita domanda e inviandola entro il 28 maggio 2021 attraverso i canali telematici dell’Agenzia delle Entrate, seguendo le istruzioni, declinate dal Provvedimento n. 77923/2021 del 23 marzo 2021, disponibili sul sito internet della stessa Agenzia. 

https://www.agenziaentrate.gov.it/portale/-/provvedimento-del-24-marzo-2021

Andrea Dili
Dottore Commercialista, esperto di Welfare Index PMI

Fonti istitutive e modalità di attuazione del welfare aziendale | Estratto dal Rapporto 2020

Lo sviluppo del welfare aziendale è stato sostenuto in questi anni da una crescente articolazione delle sue fonti istitutive. Alla contrattazione nazionale, che ha storicamente creato gli istituti del welfare occupazionale collettivo, numerose aziende hanno affiancato accordi di secondo livello: contratti aziendali, interaziendali, territoriali. Oggi il welfare aziendale è un tema di negoziazione a entrambi i livelli, quello collettivo nazionale e quello aziendale e locale. Inoltre, accanto alle fonti negoziali, una spinta rilevante viene dall’iniziativa autonoma delle imprese. Se i contratti collettivi (CCNL) stanno progressivamente ampliando le garanzie di welfare, la diffusione effettiva dei servizi da questi istituiti resta tuttavia parziale.

Secondo i dati Covip, l’autorità di vigilanza della previdenza complementare, i fondi pensione chiusi hanno raggiunto a giugno 2020 una penetrazione del 26% sul bacino di potenziali aderenti. Considerando anche le altre tipologie di fondi previdenziali, collettivi e individuali, il tasso di copertura sale al 36% sul totale degli occupati.

Per quanto riguarda la sanità complementare, il tasso di copertura di casse, società di mutuo soccorso e dei fondi sanitari è circa del 35% (stime Innovation Team su dati ISTAT e Ministero della Salute). Una delle cause frenanti per questi istituti è la difficoltà di comunicazione e di coinvolgimento dei lavoratori, in un contesto di estrema frammentazione del sistema produttivo (FIGURA 21). Solo nel 31,2% delle imprese i lavoratori ricevono una comunicazione completa e sistematica sulle misure di welfare previste dai contratti nazionali. Nel 30,4% dei casi la comunicazione si limita all’informazione generica o parziale su alcuni servizi, mentre nel 38,4% è di fatto assente. Negli ultimi anni è molto cresciuta l’importanza dal welfare aziendale nella contrattazione integrativa: accordi aziendali, interaziendali e locali. Sono significativi a questo proposito i dati OCSEL (Osservatorio sulla Contrattazione di Secondo Livello) della CISL: il 36% degli accordi integrativi sottoscritti nel periodo 2017-18 hanno introdotto misure di welfare, con una crescita notevole sul biennio precedente (23%).

 

Il welfare si è affermato come la seconda materia più presente nella contrattazione di secondo livello, dopo il salario e prima di materie di grande importanza come l’orario, la gestione delle ristrutturazioni e delle crisi, i diritti sindacali e l’organizzazione del lavoro.

Com’è noto, la normativa del welfare aziendale equipara come fonti istitutive la negoziazione integrativa e i regolamenti aziendali (stabiliti autonomamente dalle imprese). La FIGURA 23 mostra la crescita complessiva di queste fonti, dal 22,8% del 2019 al 33,7% del 2020. Il contratto integrativo aziendale è alla base delle iniziative di welfare principalmente nelle imprese medio grandi (47,8%), mentre la media generale è del 7,6%. Molto simile (7,2%) è la quota degli accordi interaziendali e territoriali. Lo strumento più diffuso è il regolamento aziendale, utilizzato dal 20,6% delle imprese. I contratti integrativi e i regolamenti aziendali introducono o disciplinano servizi di welfare aziendale nel 41,9% dei casi e prevedono premi di risultato nel 48,2%.

Abbiamo definito un indice di proattività delle imprese, misurando quante hanno introdotto iniziative di welfare aggiuntive a quelle previste dai contratti collettivi nazionali, per effetto sia dei contratti integrativi e dei regolamenti aziendali sia dell’iniziativa unilaterale delle imprese stesse. Questo indice è cresciuto in misura significativa negli ultimi anni. Le aziende che attuano almeno una misura di welfare aggiuntiva a quelle previste dai CCNL erano il 58,3% nel 2017, sono cresciute al 66% nel biennio successivo e hanno raggiunto il 73,5% nel 2020.

La proattività aziendale si manifesta soprattutto in alcuni ambiti del welfare: è prevalente nelle aree della formazione, del sostegno economico ai dipendenti, della cultura e del tempo libero. Nelle aree della sanità, dell’assistenza e della previdenza complementare è invece fondamentale il ruolo degli istituti negoziali collettivi, e le iniziative aziendali assumono un carattere integrativo di arricchimento delle prestazioni. Nelle altre aree l’articolazione tra le diverse fonti istitutive è bilanciata. Il welfare aziendale si sviluppa dunque per effetto di una molteplicità di iniziative, in un quadro complesso di norme e di relazioni industriali.

Gli incentivi fiscali restano determinanti nell’incoraggiare l’iniziativa di welfare delle imprese, pur se la crescente proattività determina anche una maggiore disponibilità alla spesa. Le imprese che sostengono costi aggiuntivi rilevanti per il welfare aziendale sono il 9%, mentre per il 34,7% i costi sono sostenibili perché in buona parte compensati dai risparmi fiscali. Il numero complessivo di imprese che sostengono costi per il welfare aziendale è dunque del 43,7%, in graduale crescita. Tra le imprese molto attive questa quota raggiunge il 66,4%.

Uno degli scopi della normativa del welfare aziendale è di contribuire alla crescita dei premi di risultato, per favorire l’adozione di sistemi premianti capaci di migliorare la produttività delle imprese. La conoscenza, almeno generale, di queste norme e delle opportunità che offrono è in crescita, dal 53,8% del 2017 al 61,5% del 2020. Ma la conversione in welfare dei premi di risultato è tuttora poco diffusa: riguarda il 12,8% delle imprese (il 20,9% di quelle che ne sono a conoscenza), nella maggior parte dei casi per importi di modesta entità. Va però sottolineata l’apertura di interesse: se nel 2017 il 70,8% delle imprese a conoscenza di questo strumento dichiaravano di non avere intenzione di utilizzarlo in futuro, nel 2020 la loro quota è scesa al 42,5%.

La diffusione del welfare aziendale è stata facilitata dall’ampiezza delle prestazioni incentivate e dalla possibilità per i lavoratori di scegliere liberamente quali utilizzare. La normativa ha permesso l’adozione di sistemi di flexible benefit, supportati da piattaforme che gestiscono l’accesso alla gamma di servizi selezionati dall’azienda. La conoscenza e l’utilizzo dei flexible benefit, inizialmente limitati alle maggiori aziende, sono in crescita. L’indice di conoscenza era del 29,8% nel 2017, oggi è del 38,6%. Le imprese che ne fanno uso sono passate negli stessi anni dall’1% al 19,6% di quelle che ne sono a conoscenza, pari al 7,6% del totale delle imprese.

Leggi il Rapporto 2020 qui.

Bilanci 2020 e normativa emergenziale Covid-19

di Andrea Dili – Dottore Commercialista, esperto di Welfare Index PMI

Nelle prossime settimane società di capitali e cooperative saranno alle prese con la chiusura dei bilanci dell’esercizio 2020, con stati patrimoniali generalmente appesantiti dalle perdite provocate dall’emergenza sanitaria COVID-19. In tale contesto, l’applicazione delle ordinarie regole di redazione del bilancio potrebbe condurre alla chiusura forzata di molte imprese, a causa della materiale impossibilità di rispettare i vincoli patrimoniali dettati dal diritto societario.

Al fine di scongiurare tale rischio il legislatore ha predisposto una serie di strumenti “eccezionali”, volti a consentire alle imprese la riduzione o il rinvio degli effetti “contabili” delle perdite maturate nel corso del 2020 a causa delle restrizioni imposte dalla pandemia. In particolare, la strategia messa in campo con i decreti emergenziali si è dispiegata in una duplice direzione:

  • da un lato derogando all’applicazione di alcune norme del diritto societario;
  • dall’altro introducendo la possibilità di avvalersi di interventi atti a migliorare i saldi dei bilanci 2020.

Per quanto riguarda le deroghe gli interventi più significativi riguardano il rinvio dell’entrata in vigore della riforma della crisi d’impresa e, soprattutto, il varo di una disciplina transitoria inerente i principi di redazione del bilancio e le cause di scioglimento per riduzione o perdita del capitale sociale. In merito a quest’ultima fattispecie occorre osservare che l’articolo 6 del Decreto Liquidità (DL 23/2020) dispone che per l’esercizio in corso al 31 dicembre 2020 non trovano applicazione le norme che prevedono l’obbligo di riduzione del capitale sociale o lo scioglimento della società in caso di perdite significative (ovvero che incidono il capitale per oltre un terzo o che lo riducono al di sotto del minimo legale). In questi casi le società interessate avranno cinque anni di tempo per assorbire le perdite registrate nel 2020, utilizzando gli utili prodotti nei successivi esercizi o eventuali nuove sottoscrizioni di capitale da parte dei soci. Ai fini della relativa informativa occorrerà specificare in appositi prospetti della nota integrativa del bilancio l’origine e la movimentazione di tali perdite, fino a quando non saranno completamente riassorbite.

Il successivo articolo 7 dello stesso decreto contempla la possibilità di derogare al principio secondo cui il bilancio deve essere stilato nella prospettiva della continuazione dell’attività. Le società possono avvalersi di tale opzione soltanto se l’ultimo bilancio precedentemente approvato è stato redatto con il presupposto della continuità aziendale. In ogni caso, tuttavia, al fine di assicurare una corretta informazione nei confronti dei terzi, nella nota integrativa del bilancio dovranno essere illustrate le ragioni dell’utilizzo della deroga nonché della capacità dell’impresa di continuare a svolgere la propria attività nel prossimo futuro.

Per quanto invece attiene alle operazioni che possono incidere sui saldi del bilancio 2020 vanno evidenziate le opportunità delineate dal Decreto di Agosto (DL 104/2020), ovvero:

  • la sterilizzazione degli ammortamenti;
  • la rivalutazione dei beni d’impresa.

I commi da 7-bis a 7-quinquies dell’articolo 60 del decreto concedono, ai soggetti che non adottano i principi contabili internazionali, la facoltà di non imputare in bilancio una quota fino al 100% degli ammortamenti delle immobilizzazioni immateriali e materiali di competenza dell’esercizio 2020 (esercizio in corso al 15 agosto 2020), a condizione di iscrivere una riserva indisponibile di pari valore nel patrimonio della società. In buona sostanza, quindi, le società interessate potranno ridurre o azzerare la quota di ammortamento relativa al 2020, migliorando il risultato economico dell’anno. In merito occorre osservare come, a seconda della tipologia del bene cui l’operazione è riferita, l’ammortamento sospeso dovrà essere recuperato secondo una duplice modalità:

  • nel caso in cui la vita utile del bene possa essere ragionevolmente allungata il piano di ammortamento slitterà di un anno;
  • nel caso in cui, invece, non sia possibile aggiornare la vita utile del bene (si pensi, ad esempio, al caso di una licenza con durata limitata) occorrerà spalmare la quota sospesa sugli anni residui.

 

Anche in questo caso si dovranno indicare le ragioni dell’esercizio dell’opzione nella nota integrativa, specificandone gli effetti patrimoniali, finanziari e sul risultato economico dell’esercizio. Sul piano fiscale, invece, le imprese interessate potranno godere della deduzione delle relative quote seguendo il piano di ammortamento originario (e, quindi, deducendo nel 2020 anche le quote sospese).

L’articolo 110 dello stesso decreto, infine, consente a società di capitali e cooperative che non adottano i principi contabili internazionali di rivalutare beni d’impresa e partecipazioni iscritti nel bilancio dell’esercizio in corso al 31 dicembre 2019. Sul piano contabile la rivalutazione, che potrà essere eseguita esclusivamente nel bilancio dell’esercizio successivo (ovvero quello in corso al 31 dicembre 2020), comporta l’iscrizione di una riserva di pari valore nel patrimonio netto.

L’impresa potrà eseguire tale rivalutazione distintamente su ciascun bene, ad un valore massimo coincidente con quello di mercato, secondo tre diverse metodologie:

  • rivalutazione del costo storico;
  • riduzione del fondo ammortamento;
  • rivalutazione del costo storico e del fondo ammortamento.

Sul piano tributario l’impresa interessata potrà optare sia per l’affrancamento, anche parziale, della rivalutazione mediante il versamento di una imposta sostitutiva del 10%, sia per il riconoscimento del maggior valore ai fini fiscali tramite il pagamento di una imposta sostitutiva del 3%.

Nel complesso, quindi, se il 2020 può essere considerato l’annus horribilis (anche) per il sistema economico del nostro Paese, verosimilmente le deroghe ai principi contabili messe in campo dalla legislazione emergenziale potranno alleviare gli effetti negativi della pandemia sui saldi di bilancio, anche se per valutarne la concreta efficacia presumibilmente occorrerà attendere il termine dell’emergenza sanitaria.

Andrea Dili
Dottore Commercialista, esperto di Welfare Index PMI